Wabi Sabi – 12 variazioni sul tema

Wabi-Sabi

Wabi-Sabi è la bellezza delle cose imperfette, temporanee e incompiute.
Wabi-Sabi è la bellezza delle cose umili.
Wabi-Sabi è la bellezza delle cose insolite.

Wabi-Sabi


La lingua giapponese possiede un lessico per definire l’esperienza estetica che é, o dovrebbe essere, invidiato dal mondo occidentale. Queste parole non sono traducibili direttamente nelle lingue europee, ma offrono una varietà articolata di tipologie di bellezza a cui chiunque può avvicinarsi.
Il Wabi-Sabi è l’aspetto più evidente e caratteristico di quella che noi consideriamo la bellezza giapponese tradizionale e, nel pantheon giapponese dei valori estetici, occupa pressappoco lo stesso ruolo che noi occidentali attribuiamo agli ideali greci di bellezza e perfezione.
Wabi inteso come bellezza è umiltà, asimmetria e imperfezione, una bellezza fatta di disgregazione, di terra, foglie autunnali, erba nella siccità. Wabi dal punto di vista estetico è una connessione con il mondo nella sua imperfezione, un modo di vedere l’imperfezione come incarnazione stessa della bellezza. Sabi significa solitudine, sia come stato di isolamento personale sia come povertà di oggetti. L’arte giapponese della composizione floreale, l’ikebana, per esempio, può essere Sabi in confronto allo stile occidentale, perché dispiega una estrema economia di mezzi, magari solo un paio di steli, e pone altrettanta enfasi in un ramo o in una foglia o in un fiore. Sabi è calma e isolamento, una malinconia che è una delle principali risorse che l’uomo ha della bellezza. Wabi-Sabi è la bellezza delle cose appassite, erose, ossidate, graffiate, intime, ruvide, terrose, evanescenti, incerte, transitorie.

“Wabi-Sabi. 12 Variazioni sul tema” è il titolo della prima edizione del Calendario dell’Inclusione Sociale di Vicenza e Provincia, che ha visto coinvolti in una serie di laboratori sensoriali, fotografici e poetici, più di trenta ospiti dei centri di accoglienza di Vicenza (Casa San Martino della Caritas Diocesana, Albergo Cittadino), Arzignano (Casa Alice Dalli Cani), Bassano del Grappa (Casa San Francesco), Schio (Casa Bakhita), e Valdagno (Asilo Notturno Mulini d’Agno): spazi dove sostare trovando un momento per la cura di sé, in un clima di accoglienza e non giudizio. Un tempo diverso dalla precarietà del quotidiano, dove costruire un momento di revisione personale ma anche di creatività.
Creatività che quest’anno è sfociata nella costruzione di testi poetici ispirati ai tradizionali haiku giapponesi; questi sono andati ad affiancare i ritratti degli ospiti, protagonisti di un servizio fotografico ispirato alla moda dei primi del 900 e alla pittura di Tiziano e Antonello da Messina, e una serie di immagini di paesaggio Veneto colto con sensibilità orientale.
Il tutto condensato in questo calendario che nasce per dissolversi, per far emergere lentamente aspetti minori e nascosti, per mettere in relazione la delicatezza di un paesaggio con la fragilità di un uomo e la sofferenza della parola. Per comprendere l’inevitabilità del cambiamento e l’impossibilità della perfezione e, in definitiva, per donare felicità agli altri.
Questa è la strada che porta al Wabi-Sabi.


Voglio presentare questo progetto vicentino per l’inclusione, perché è molto interessante e poi perché, è come un salmone canadese quando deve andare a riprodursi, va controcorrente. E’ incidentale che nel progetto sia impegnata una mia cara amica. Una di quelle menti fervide e creative che possono dare una grossa mano a questa nazione in piena entropia. Grazie Betta!


Giuseppe per l’inclusione sociale

#746

 

Oggi vi racconto una storia…

Penna

L’Aquila. Storia di Alice che si chiama anche Gea

Alice doveva nascere il 10 aprile 2009. Era tutto pronto: la culla, il corredino, il fiocco rosa da appendere sulla porta di casa nuova. Come Alice diventa Gea. [Francesca Luzi] - venerdì, 10. febbraio 2012 10:40

Alice - Gea - L'Aquila

L'Aquila. Storia di Alice che si chiama anche GeaIl 5 aprile, alla prima scossa delle 22:48, magnitudo 3.9 Richter, Manuela e Marco prendono Lorenzo dal letto e decidono di andare a passare la notte a casa dei genitori di Manuela al primo piano. La loro nuova casa si trova al quarto; si sentono troppo esposti e poi la pancia di Manuela è davvero tanto grande per rischiare una corsa per le scale. A casa dei nonni Lorenzo si addormenta insieme a loro nel lettone e Manuela e Marco nella loro vecchia camera da letto.

Seconda scossa alle 00:40, magnitudo 3.5 Richter. Alle 03:32 l’inferno. La luce va via, l’armadio cade sul letto colpendo Manuela lateralmente sulla pancia e sulla coscia. Marco resta sotto l’armadio e al buio disperatamente cerca di scrollarselo da dosso. Manuela nonostante la botta si libera di scatto e corre a tastoni al buio a cercare Lorenzo nell’altra stanza. Cerca di aggrapparsi agli stipiti delle porte ma non li trova, la casa è scrollata da sotto, da sopra, gira tutto, cerca di gridare il nome di Lorenzo ma si accorge che quelli che escono dalla sua bocca sono solo suoni disarticolati.

Raggiunge la camera dei suoi genitori, capisce a tastoni che suo padre sta facendo scudo su Lorenzo perché il quadro staccatosi dal muro ora copre la schiena di Cesare. Manuela li chiama, li tocca ma nessuno risponde. Teme il peggio ma fortunatamente nessuno si è fatto troppo male. L’inferno dura circa quaranta interminabili secondi. Manuela è dolorante e non riesce a sentire più i movimenti di Alice nella pancia. Corrono in ospedale, il traffico è impazzito ed arrivano dopo un tempo interminabile.

L’ospedale è in pieno delirio per i crolli al pronto soccorso e in molti altri reparti. Cercano urlando nel caos un ginecologo e dopo averlo trovato le dice di non poterla visitare ma di smuovere violentemente la pancia per capire se c’è ancora. Alice si muove. Alice è viva!

Poi il campo, le tende, il freddo. Infine la piccola stanza d’albergo sulla costa, a Montesilvano. Il 10 aprile si celebrano i funerali di Stato. Una distesa oscena, inguardabile di 309 bare affolla il piazzale della Scuola della Guardia di Finanza a Coppito. Il 10 aprile, durante i funerali, a Pescara nasce Alice, che avrà come secondo nome Gea, il titano femmina che impersona la terra, la dea romana Tellure.

Alice non aveva il suo corredino, i suoi vestitini, quelli comprati dai suoi genitori, carrozzina, pannolini, confetti per festeggiare. Li aveva, ma a casa sua a L’Aquila, al quinto piano di un palazzo gravemente danneggiato. Alice è uscita dall’ospedale ed è entrata in una piccola stanza d’albergo che per sei mesi è stata la sua casa. Senza la privacy che spetta alle partorienti appena uscite dall’ospedale, ha mangiato e dormito insieme a centinaia di altri sfollati come lei, nata sfollata in abiti non suoi, allattata nella sala ristorante dell’albergo, negata persino del silenzio che contraddistingue le case dove arriva un neonato, conficcata nel caos più totale di una banda di bambini sfollati iperattivi che nel post sisma hanno scatenato tutta la loro irrequietezza, paura e rabbia incomprensibile (per loro, piccoli!).

Alice ha messo piede in una casa per sé e la sua famiglia soltanto a gennaio 2010. Le era stata donata una piccolissima casetta di quelle trasportabili dalla società sportiva Siena calcio dalla quale dovettero scappare ai primi freddi perché si erano congelati i tubi ed era pericoloso dormirci con del riscaldamento a stufette.

Alice Gea è una bambina veramente tosta. È il simbolo dell’Aquila che resiste, che non molla nonostante tutto, è il germoglio dal quale nascerà la nuova genie di Aquilani, quella dei “senza paura” perché nati dopo la terribile notte che ha fatto da spartiacque tra la vita di prima e il dopo che stiamo vivendo oggi.  Andiamo avanti.

[Articolo tratto da Il Giornalettismo]


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#621

 

Con le donne

Solidale - Nastro Rosa  Campagna per la lotta al cancro al seno

Solidale – Nastro Rosa

Campagna per la lotta al cancro al seno

Nastro Rosa

Nastro rosa

cancro_seno_organizzazione


Giuseppe con il nastro rosa.

#273

 

L’Aquila mesi dopo…

L’Aquila mesi dopo…

L’Aquila – 06/04/2009 – ore 3.32

L'aquila

Foto da "Repubblica"Ieri mi ha telefonato l’impiegata di una società di recupero crediti, per conto di Sky. Mi dice che risulto morosa dal mese di settembre del 2009. Mi chiede come mai. Le dico che dal 4 aprile dello scorso anno ho lasciato la mia casa e non vi ho più fatto ritorno. Causa terremoto. Il decoder sky giace schiacciato sotto il peso di una parete crollata. Ammutolisce. Quindi si scusa e mi dice che farà presente quanto le ho detto a chi di dovere. Poi, premurosa, mi chiede se ora, dopo un anno, è tutto a posto. Mi dice di amare la mia città, ha avuto la fortuna di visitarla un paio di anni fa. Ne è rimasta affascinata. Ricorda in particolare una scalinata in selci che scendeva dal Duomo verso la basilica di Collemaggio. E mi sale il groppo alla gola. Le dico che abitavo proprio lì. Lei ammutolisce di nuovo. Poi mi invita a raccontarle cosa è la mia città oggi. Ed io lo faccio. Le racconto del centro militarizzato. Le racconto che non posso andare a casa mia quando voglio. Le racconto che, però, i ladri ci vanno indisturbati. Le racconto dei palazzi lasciati lì a morire. Le racconto dei soldi che non ci sono, per ricostruire. E che non ci sono neanche per aiutare noi a sopravvivere. Le racconto che, dal primo luglio, torneremo a pagare le tasse ed i contributi, anche se non lavoriamo. Le racconto che pagheremo l’i.c.i. ed i mutui sulle case distrutte. E ripartiranno regolarmente i pagamenti dei prestiti. Anche per chi non ha più nulla. Che, a luglio, un terremotato con uno stipendio lordo di 2.000 euro vedrà in busta paga 734 euro di retribuzione netta. Che non solo torneremo a pagare le tasse, ma restituiremo subito tutte quelle non pagate dal 6 aprile. Che lo stato non versa ai cittadini senza casa ,che si gestiscono da soli, ben ventisettemila, neanche quel piccolo contributo di 200 euro mensili che dovrebbe aiutarli a pagare un affitto. Che i prezzi degli affitti sono triplicati. Senza nessun controllo.Che io pago ,in un paesino di cinquecento anime, quanto Bertolaso pagava per un’appartamento in via Giulia, a Roma. La sento respirare pesantemente. Le parlo dei nuovi quartieri costruiti a prezzi di residenze di lusso. Le racconto la vita delle persone che abitano lì. Come in alveari senz’anima. Senza neanche un giornalaio. O un bar. Le racconto degli anziani che sono stati sradicati dalla loro terra. Lontani chilometri e chilometri. Le racconto dei professionisti che sono andati via. Delle iscrizioni alle scuole superiori in netto calo. Le racconto di una città che muore. E lei mi risponde, con la voce che le trema. ” Non è possibile che non si sappia niente di tutto questo. Non potete restare così. Chiamate i giornalisti televisivi. Dovete dirglielo. Chiamate la stampa. Devono scriverlo.”


Guardate anche questo video e leggete questa storia, è davvero commovente:

Nonostante tutto è Pasqua – Ferzan Ozpetek – Alessandra Cora


Giuseppe per l’Abruzzo.

#225

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