Atene ha spento le luci

Grecia - CrisiAtene ha spento le luci


Petros Markaris, Die Zeit, Germania

 

 

Negozi chiusi. Strade buie. File interminabili di taxi in attesa di clienti. La Grecia è in ginocchio. E se la colpa è di una classe dirigente corrotta, a pagare sono soprattutto i poveri.

Accanto al sistema politico istituzionale, composto da sette partiti, in Grecia c’è un sistema parallelo, slegato dal parlamento e articolato in quattro partiti. Sono i partiti in cui si è spaccata la società dopo diciotto mesi di crisi economica. Invece di avvicinarsi e collaborare, con l’aggravarsi dei problemi e l’inasprirsi della lotta per la sopravvivenza quotidiana questi quattro gruppi sono sempre più distanti tra loro. A volte si alleano per raggiungere un obiettivo, ma spesso sono impegnati in una guerra di trincea.

Per cominciare c’è il “partito dei profittatori”. Ne fanno parte tutte le imprese che negli ultimi trent’anni hanno approfittato del sistema clientelare. Innanzitutto le imprese edilizie, che hanno fatto fortuna grazie alle Olimpiadi del 2004, aggiudicandosi appalti pubblici a cifre astronomiche. Al partito dei profittatori appartengono anche le imprese che riforniscono gli enti pubblici: per esempio le ditte che vendono farmaci e apparecchiature mediche agli ospedali. Di recente il ministero della salute ha creato un ufficio incaricato di comprare medicinali attraverso aste su internet, e per i primi acquisti gli ha messo a disposizione 9 milioni 937mila 480 euro, un cifra calcolata in base a quanto era stato speso fino ad allora. Comprando i farmaci online il ministero ha speso solo 616.505 euro, il 6,2 per cento della somma stanziata. In questo modo i greci hanno finalmente scoperto quanti soldi inghiottiva il vecchio sistema.

Senza le nuove misure di austerità tutto sarebbe rimasto com’era. Il partito dei profittatori – imprese edilizie e fornitori di ospedali – aveva stretto legami con il partito al governo e i suoi ministri. Negli apparati dello stato tutti erano a conoscenza di questi accordi e del loro costo per la collettività, ma nessuno ne parlava. E non solo perché i partiti intascavano contributi colossali, ma anche perché le imprese corrotte finanziavano le campagne elettorali dei deputati e assicuravano ai loro familiari posti di lavoro ben retribuiti. Il partito dei profittatori è anche quello degli evasori fiscali, soprattutto professionisti con redditi alti come medici e avvocati. “La visita costa 80 euro. Se vuole la fattura sono 110”, è la frase che si sente ripetere ogni greco quando entra in uno studio medico. Alla fine la maggior parte dei pazienti rinuncia alla fattura pur di risparmiare 30 euro. Le autorità tollerano e si voltano dall’altra parte per non vedere. È la conseguenza dell’alleanza che hanno stretto con i professionisti e le imprese.

Truffe e clientelismo
Intanto il numero dei cittadini in difficoltà cresce senza sosta. Molti non riescono più a mettere insieme neanche i soldi per pagare il ticket sui medicinali. E c’è anche chi, per curarsi, si rivolge a Médecins du monde. Le due cliniche ateniesi dell’organizzazione umanitaria francese sono state aperte per gli immigrati arrivati dall’Africa, ma ormai offrono assistenza anche ai greci più poveri. Spesso davanti ai loro ambulatori ci sono centinaia di persone in fila. Molti sono diabetici che non possono più permettersi l’insulina. La miseria sta contagiando anche i greci. Fino a sei mesi fa, quando la mattina presto aprivo la finestra del mio balcone e guardavo giù in strada, vedevo profughi che frugavano nei cassonetti alla ricerca di qualcosa da mangiare. In queste ultime settimane mi capita spesso di vedere dei greci. Per non farsi notare scelgono le prime ore del mattino, quando le strade sono deserte.

Ovviamente i profittatori e gli evasori fiscali non hanno questi problemi. La crisi quasi non l’avvertono, perché prima che scoppiasse avevano già trasferito i soldi all’estero. Negli ultimi diciotto mesi le banche greche hanno perso sei miliardi di euro, mentre quelle estere, soprattutto svizzere, hanno fatto affari d’oro.

Ci sono anche dei profittatori che, sposando le tesi della sinistra radicale, hanno invocato il ritorno alla dracma. In questo modo il loro patrimonio in euro aumenterebbe di valore e gli permetterebbe di acquistare importanti proprietà pubbliche a prezzi stracciati. In caso di uscita dall’euro, infatti, lo stato sarebbe costretto a privatizzare gran parte dei suoi beni per fare cassa.

Un altro sodalizio molto pericoloso è quello tra il governo e gli agricoltori, che fanno parte anche loro del partito dei profittatori. Fin dall’ingresso della Grecia nella Comunità economica europea, nel 1981, tutti i governi hanno compatito i “poveri contadini greci”, che avrebbero meritato una sorte migliore. In realtà, grazie ai sussidi europei, già da tempo gli agricoltori greci non se la passano male. Le sovvenzioni sono state distribuite in modo arbitrario e incontrollato, senza le verifiche necessarie. I contadini sotterravano i loro prodotti, fornivano cifre false e incassavano il denaro. Come se non bastasse, la Banca dell’agricoltura greca gli ha concesso generosi crediti, che a tutt’oggi non sono stati rimborsati. I partiti al governo hanno evitato che fossero fatte pressioni sui coltivatori: avevano bisogno dei loro voti e di quelli delle loro famiglie. Il risultato è che l’agricoltura greca è alla bancarotta e in campagna si vedono contadini che vanno in giro a bordo di jeep Cherokee.

La seconda fazione si potrebbe chiamare “partito degli onesti”, ma preferisco “partito dei martiri”. Ne fanno parte i proprietari delle piccole e medie imprese, i loro dipendenti e i lavoratori autonomi, come i tassisti o gli artigiani. Questi cittadini, che lavorano sodo e pagano regolarmente le tasse, dimostrano che la tesi diffusa in Europa secondo cui i greci sono pigri e scansafatiche è completamente falsa. Il partito dei martiri è il più numeroso. Eppure non è abbastanza forte da stringere alleanze vantaggiose, e alla fine viene sfruttato da tutti. I martiri sono i greci più colpiti dalla crisi.

Per i piccoli imprenditori il colpo più duro è stato la recessione. Ovunque ad Atene ci si imbatte nello spettacolo desolante di negozi vuoti e abbandonati, anche nelle zone più eleganti, come via Patission, la più antica delle tre principali vie del centro di Atene, luogo di passeggiate per la buona borghesia cittadina. È una zona che conosco bene, perché abito lì vicino. Un tempo la strada era illuminata a giorno dalle vetrine dei negozi. Oggi di sera Patission è buia come la pece. Un negozio su due ha chiuso, e quei pochi ancora aperti sopravvivono vendendo merce scontata.

Nessuna prospettiva
In via Aiolou (Eolo), una strada commerciale del centro storico con negozi poco costosi, lo spettacolo è ancora più triste. I negozi sono chiusi o vuoti. Clienti non se ne vedono. La via è ridotta a un’area pedonale senza pedoni. “Quanto posso resistere?”, mi aveva chiesto la titolare di un piccolo negozio di abbigliamento dove ho comprato un paio di calzini. “Passano giorni interi senza che entri un cliente”. Alla fine anche lei si è arresa: l’ultima volta che sono passato in via Aiolou il suo negozio era chiuso.

Un’amica di mia sorella lavora in una piccola impresa edilizia. Il titolare ha licenziato tutto il personale tranne lei. Ormai non si costruiscono più case. L’amica di mia sorella non prende lo stipendio da sette mesi, ma almeno ha la fortuna di avere ancora un posto di lavoro.

Quelli del partito dei martiri sono scoraggiati. Hanno perso ogni speranza. La crisi gli ha tolto la speranza di un futuro migliore. A parlarci, si ha la sensazione che stiano solo aspettando la fine. Quando un’ampia fetta della popolazione non ha più fiducia, la vita diventa opprimente. In molti condomini non si accende più nemmeno il riscaldamento: le famiglie non hanno i soldi per il gasolio o preferiscono risparmiarli.

Il partito dei martiri
Non ho la patente, e quando vado o torno dall’aeroporto mi rivolgo a un tassista di fiducia. Si chiama Thodoros, è scapolo e vive da solo. “Che ne pensa di Lucas Papademos?”, mi ha chiesto alla fine di novembre mentre mi riportava a casa. Gli ho risposto che il nuovo primo ministro è una persona capace e onesta, che gode di grande considerazione in Grecia e in Europa. “Certo, ma la sua nomina non mi ha mica portato nuovi clienti”, ha risposto rassegnato il tassista. “Be’, sarebbe pretendere un po’ troppo”, ho obiettato io. “Ma lei capisce?”, è sbottato Thodoros. “La licenza di questo taxi mi costa 350 euro a settimana. Lavoro sette giorni su sette, ma spesso quello che guadagno mi basta solo per coprire le spese. E alla fine ci rimetto di tasca mia. Che il primo ministro sia Papademos o un altro poco importa: la mia attività è andata a rotoli”.

I greci usano spesso il taxi perché costa poco. Con 3 euro e 20 arrivi quasi ovunque nel centro di Atene, e una corsa più lunga non costa mai più di 6 euro. Fino a sei mesi fa trovare un’auto libera a mezzogiorno era un’impresa. Oggi ci sono dappertutto file di taxi in attesa di clienti. E non solo a mezzogiorno: anche di sera e nel fine settimana.

Ma non basta. La recessione non è l’unica preoccupazione dei martiri. Non hanno più lavoro, eppure devono continuare a pagare: l’imposta sui redditi, le altre tasse e il contributo di solidarietà, che l’anno prossimo dovranno versare addirittura due volte. Quanto all’iva, negli ultimi dodici mesi è stata aumentata due volte. Gli evasori, in compenso, non sanno nulla di addizionali e contributi di solidarietà. Molti di loro non compilano neppure la dichiarazione dei redditi, oppure nascondono al fisco il grosso delle loro entrate. I cittadini onesti, invece, sono costretti a pagare perfino per l’aria che respirano.

Al partito dei martiri appartengono anche i lavoratori e i disoccupati del settore privato. Oggi in Grecia sono pochissimi i lavoratori a cui viene pagato regolarmente lo stipendio. Molti lo incassano a rate e con mesi di ritardo. Tutti vivono in condizioni difficili e tra grandi preoccupazioni, perché temono che le imprese per cui lavorano chiudano i battenti dall’oggi al domani. Inoltre, con la crescita bloccata e senza la possibilità di ottenere un prestito, molte piccole imprese spariscono lasciandosi alle spalle i debiti da pagare. Mio suocero, fornitore di negozi di abbigliamento per bambini, mi ha raccontato che solo nell’ultima settimana gli è capitato di dover affrontare situazioni simili per ben tre volte.

Davanti agli uffici di collocamento si vedono lunghe file di disoccupati che ogni mese aspettano pazientemente il mandato di pagamento per incassare il sussidio in banca. Ma non hanno nessuna certezza che i soldi arrivino ai primi del mese. A volte per avere i loro 416 euro e 50 devono aspettare settimane. Il numero dei disoccupati cresce giorno dopo giorno, e gli uffici esauriscono presto il denaro.

Considerato che l’apparato dello stato e le sue finanze sono al collasso, al ministero delle finanze qualcuno si è fatto venire la brillante idea di far pagare le tasse attraverso le bollette dell’elettricità: a chi non paga viene tagliata la luce. Alla tv greca ho visto immagini di anziani che facevano la fila alla cassa dell’azienda elettrica per pagare le imposte. “Devo pagare subito 250 euro”, ha detto un signore sulla sessantina davanti alle telecamere. “Per l’affitto spendo 400 euro al mese. Come faccio a campare con i 150 euro che mi restano?”.

Vedendo queste scene mi sono improvvisamente tornati in mente gli anni sessanta, quando venni a vivere in Grecia. Allora mi trovai di fronte a uno spettacolo curioso e insolito: case a un piano, costruite in quartieri operai e piccolo borghesi, dai cui tetti spuntavano ancora le sbarre di ferro del cemento armato. Quelle sbarre avevano un aspetto orrendo, ma erano una promessa: il sogno di un secondo piano. Il sogno di un appartamento per i figli. Era l’obiettivo per cui questa gente aveva risparmiato tutta la vita. Oggi, invece, sono tutti al verde. Con il suo brutale clientelismo questo fallimentare sistema politico ha distrutto, insieme alle illusioni di ricchezza, anche la dignità della povera gente.

L’occupazione dello stato
C’è poi il terzo gruppo, che chiamerò il “partito del Moloch”. Questo partito recluta i suoi militanti nell’apparato dello stato e nelle imprese pubbliche, ed è diviso in due correnti: da una parte ci sono gli impiegati e i funzionari pubblici, dall’altra i sindacalisti. Il partito del Moloch è la componente esterna al parlamento su cui fa affidamento il partito che si trova di volta in volta al governo. Ed è anche il garante del sistema clientelare, perché è composto in gran parte da quadri e funzionari di partito.

Questo sistema ha una lunga storia che risale all’epoca successiva alla guerra civile, gli anni cinquanta. A quel tempo i nazionalisti, che avevano sconfitto i partigiani comunisti, occuparono l’intero apparato statale, mettendo ovunque persone di loro fiducia: una sorta di ricompensa per la fedeltà agli ideali nazionalistici e monarchici. Poi, nel 1981, subito dopo l’ingresso della Grecia nella Comunità economica europea, andò al governo per la prima volta il partito socialista, il Pasok. Furono i socialisti a trasformare questo sistema in una consuetudine politica. Inizialmente la prassi fu giustificata con argomenti abbastanza ragionevoli, condivisi dagli elettori.

Secondo il Pasok, dopo il lungo dominio dei partiti di destra, l’apparato statale era diventato pregiudizialmente ostile alle forze di sinistra. Per poter governare, quindi, i socialisti dovevano mettere uomini di fiducia nei posti chiave dell’amministrazione. Ma la cosa non finì lì. Ben presto tutto l’apparato statale fu occupato dagli uomini del Pasok. Quasi la metà degli iscritti al partito fu ricompensata con un posto nella pubblica amministrazione.

Da allora tutti i governi greci si sono legati a una di queste due fazioni interne all’apparato statale: una situazione che è durata fino ai primi mesi dell’ultima crisi. Grazie ai sussidi europei i soldi non erano un problema. Quando poi non sono bastati più, se ne sono presi a prestito per tappare i buchi. La maggioranza degli uomini di partito sistemati nell’apparato pubblico non faceva nulla o si limitava al minimo indispensabile. Ecco cosa è capitato a un’amica che lavora come ingegnere in un’azienda pubblica. Un anno fa nel suo ufficio è arrivato un nuovo collega. Il primo giorno ha subito dichiarato: “Care colleghe e cari colleghi, mi dispiace molto ma ho dimenticato tutto quello che ho imparato all’università”. Non ha mai lavorato. E nessuno dei superiori ha mai detto nulla.

I dipendenti pubblici che fanno parte del partito del Moloch, tuttavia, non sono tutti uguali. Una parte dei suoi militanti starebbe meglio nel partito dei martiri: per esempio quei funzionari che si sono guadagnati il posto di lavoro con un concorso e non grazie a raccomandazioni politiche. Sono gli unici dipendenti pubblici che lavorano (a volte per due o per tre, perché devono fare anche il lavoro degli altri) e sono quindi loro stessi vittime del sistema. Gli altri, invece, hanno stretto un’alleanza non solo con i partiti al governo, ma anche con il partito dei profittatori. Questa grande coalizione domina il partito del Moloch da trent’anni.

La piaga dell’evasione fiscale, che ha portato lo stato alla rovina, non sarebbe mai stata possibile senza l’aiuto dei funzionari del fisco corrotti, generosamente ricompensati dagli evasori per la loro disponibilità a collaborare.

Oggi i dipendenti pubblici greci si lamentano perché i loro stipendi sono stati tagliati del 30 per cento. Ma il taglio non ha colpito tutti alla stessa maniera. Le vittime del sistema in effetti ci hanno rimesso un terzo del reddito in termini reali. Ma quelli che si sono coalizzati con i profittatori percepiscono, oltre allo stipendio, anche un reddito al nero, e quindi compensano le perdite con entrate non dichiarate.

L’arma dello sciopero 
La seconda componente del partito del Moloch è rappresentata dai sindacalisti. Sui giornali tedeschi leggo spesso notizie sugli scioperi e sulle manifestazioni in Grecia. E quando vado in Germania per presentare i miei libri, tutti mi chiedono perché i greci scioperano così spesso. In realtà l’unico sciopero generale indetto in Grecia negli ultimi anni è stato quello organizzato poche settimane fa, quando il parlamento ha varato un nuovo pacchetto di misure di austerità. Per la manifestazione (in Grecia nessuno sciopero, neanche il più piccolo, si conclude senza un corteo) si sono riunite a piazza Syntagma, di fronte al parlamento, circa 140mila persone. È stata la mobilitazione più grande degli ultimi anni. Perfino i commercianti hanno abbassato le saracinesche, non perché temessero scontri (cosa che peraltro succede spesso), ma perché volevano scioperare anche loro.

Nonostante le affermazioni dei sindacati, di tutti gli scioperi precedenti neanche uno è stato davvero generale. Hanno aderito solo i lavoratori privilegiati del settore pubblico, mentre quelli del settore privato andavano a lavorare come tutti gli altri giorni. La verità è che in Grecia i sindacati non hanno nessun potere sui lavoratori del settore privato, mentre hanno un potere pressoché illimitato nel settore pubblico, e questo gli permette di proclamare uno sciopero in qualsiasi momento. In media riescono a mobilitare una decina di migliaia di manifestanti, tutti dipendenti pubblici.

Anche questo potere dei sindacati ha una sua storia. Il fondatore del Pasok, Andreas Papandreou, che è stato anche il primo presidente del consiglio socialista, dal 1981 al 1989 governò il paese come un monarca. Ma come ogni monarca, per mantenere il potere dovette affidarsi a un’aristocrazia. Così nacque una sorta di nobiltà di corte, formata dai ministri del governo e dai dirigenti di partito. Al suo fianco c’era un’aristocrazia cittadina, formata dai funzionari del sindacato e del partito sistemati nell’apparato dello stato e nelle sue aziende, affiancata a sua volta da un’aristocrazia nazionale, composta dai funzionari che riversavano sugli agricoltori i sussidi erogati dall’Unione europea. In questa situazione le istituzioni democratiche in un modo o nell’altro funzionavano, ma bastava una parola del sovrano perché un notabile cadesse in disgrazia e perdesse il posto. La benevolenza del re, però, poteva anche concedere poteri illimitati.

L’accordo con il partito al governo ha enormemente accresciuto il potere dei sindacati della funzione pubblica. Questo potere è legato a molti privilegi. Nel settore pubblico non si muove nulla senza l’assenso dei sindacalisti. Le aziende non osano opporsi ai sindacati. Temono la collera dei ministri e dei partiti al governo. Spesso, quando scoppia un conflitto tra sindacato e impresa interviene un ministro e l’azienda finisce per avere la peggio.

Gli scioperi nelle aziende di pubblica utilità e nei servizi pubblici, che a volte hanno cadenza settimanale, non sono che l’ultimo, disperato tentativo del partito del Moloch di salvaguardare i propri privilegi. O almeno di salvare il salvabile.

Le conseguenze di questa situazione ricadono come sempre sul partito dei martiri. Quando c’è una manifestazione, spesso il centro di Atene rimane chiuso al traffico e i negozi abbassano le saracinesche per paura degli scontri. Quando scioperano gli autisti dei mezzi pubblici, cosa che succede di continuo, il centro della città diventa un deserto. I commercianti perdono i pochi clienti che potrebbero ancora comprare qualcosa, e i cittadini devono andare a lavorare a piedi o in bicicletta. Può costargli anche un’ora o due ma, temendo per il posto di lavoro, non possono certo permettersi di restare a casa. Ecco perché sono dei martiri.

In Grecia alcuni gruppi fanno il proprio interesse a spese degli altri, e la solidarietà è sconosciuta. Sono i più deboli che pagano il prezzo della lotta dei sindacati contro il governo e contro le sue misure di austerità. E così diventano ostaggi dei sindacati stessi.

La quarta e ultima fazione della società greca è quella che mi preoccupa di più. È il “partito dei senza futuro”, tutti quei ragazzi greci che passano la giornata seduti davanti al computer cercando disperatamente su internet un lavoro in qualsiasi parte del mondo. Non diventeranno Gastarbeiter (lavoratori immigrati) come i loro nonni, che negli anni sessanta partirono dalla Macedonia e dalla Tracia per andare a cercare un lavoro in Germania. Questi ragazzi hanno una laurea e a volte perfino un dottorato. Ma dopo gli studi li aspetta la disoccupazione.

Io sono nato e cresciuto a Istanbul e ormai da molti anni vivo ad Atene. Mia figlia ha fatto il percorso inverso: è nata ad Atene e oggi vive a Istanbul. Una specie di “ritorno in patria della seconda generazione”. Quello di mia figlia non è certo un caso isolato: nell’ultimo anno un fiume di giovani è emigrato a Istanbul. Una volta in Turchia, questi ragazzi e ragazze si rivolgono al patriarcato ecumenico della chiesa greco-ortodossa per chiedere un lavoro o almeno un aiuto fino a quando non trovano un appartamento in affitto. La Grecia ha accantonato la sua antica diffidenza verso la Turchia grazie alla disoccupazione giovanile.

Vuoi per la recessione e per le misure di austerità, vuoi per la riduzione del debito e per le riforme, noi greci saremo vittime della crisi: nel migliore dei casi per due generazioni e nel peggiore per tre. I veri perdenti di oggi sono i giovani. Ma domani sarà tutto il paese a crollare, perché nel giro di pochi anni mancheranno forze nuove.

Gli unici che oggi decidono di venire in Grecia sono quelli che se la passano ancora peggio di noi. Ogni giorno compro i quotidiani alla stessa edicola, all’angolo della strada in cui abito. Il proprietario del chiosco è un albanese. L’altro ieri, mentre compravo il giornale, mi fa: “Guardi un po’”, e mi indica un africano che fruga nei cassonetti non lontano da noi. “Bisognerebbe rispedirli tutti a casa loro”.
“Proprio lei!”, ribatto stizzito. “Ha dimenticato che vent’anni fa i greci la chiamavano albanese di merda?”.

“È vero. Ma adesso è passato: i nostri figli vanno alle scuole greche, parlano greco e nessuno li distingue più dagli altri bambini greci”, risponde. “Molti di noi hanno perfino preso la cittadinanza greca. Il problema, adesso, è un altro: in Albania dovrò tornarci da albanese o da greco?”. “Ma come, vuole tornare in Albania?”. “Eh sì. L’edicola va bene, ma non basta per mantenere due famiglie. Sa, mio figlio è sposato e non ha un lavoro. Sua moglie è greca e in Albania non ci vuole andare. Quindi torno io con mia moglie, e lascio l’edicola a nostro figlio. Se rientro come albanese, i miei amici di un tempo mi prenderanno in giro. Sono venuto a cercare una vita migliore in Grecia e adesso torno in patria con la coda tra le gambe: per loro sono un fallito. Ma se torno da greco, mi copriranno d’insulti. ‘Voi greci’, mi diranno, ‘ci avete sempre disprezzato. Abbiamo dovuto aspettare il visto greco per mesi e siamo stati trattati come rifiuti. E adesso venite a cercare lavoro da noi’”. Il mio edicolante non è l’unico albanese a voler tornare a casa. Sono molte le famiglie albanesi che hanno già lasciato la Grecia.

Generazione perduta
Alla parata scolastica del 28 ottobre, gli alunni di un ginnasio di Atene si sono presentati con dei fazzoletti neri al collo. In Grecia il 28 ottobre è festa nazionale: si ricorda l’inizio dell’invasione dell’esercito italiano, nel 1940, e il rifiuto del paese di arrendersi all’ultimatum di Mussolini.

Quando l’opinione pubblica è venuta a sapere della manifestazione con i fazzoletti neri, c’è stata un’ondata d’indignazione e molti giornalisti hanno parlato di “offesa alla festa nazionale”. Ma i presunti provocatori erano semplicemente degli studenti di un liceo di Aghios Panteleimon, uno dei quartieri più degradati di Atene, con un tasso di disoccupazione tra i più alti del paese.

Per prendere la licenza liceale tutti gli studenti greci devono frequentare la cosiddetta scuola preparatoria, necessaria per entrare all’università. Naturalmente questo vale anche per i ragazzi di Aghios Panteleimon. Molti di loro, però, sono figli di disoccupati che non possono più pagare la retta scolastica. E così rischiano di non poter avere un’istruzione superiore. “Non volevamo disturbare la parata, volevamo solo esprimere la nostra preoccupazione per il futuro che ci aspetta”, ha dichiarato uno degli studenti.

Ma questa vicenda è solo una faccia della medaglia. Una sera di fine novembre ero seduto nel caffè della mia casa editrice, quando una signora sulla quarantina si è avvicinata e mi ha chiesto se poteva sedersi al mio tavolo. Voleva parlarmi del mio thriller Prestiti scaduti, che racconta le difficoltà dei greci per la crisi economica. Alla fine mi ha detto: “Io insegno in un ginnasio di uno dei quartieri nord di Atene, e ogni giorno mi vergogno per come abbiamo educato male questi ragazzi”.

“Cosa intende dire?”, le ho chiesto.

“Ogni giorno, durante la ricreazione, osservo gli studenti. Non parlano che di automobili, jeans di Armani e magliette di Gucci. Non hanno la minima idea del fatto che il paese è in crisi e nemmeno di quello che li aspetta. Arrivano a scuola già viziati dai genitori, e noi continuiamo a viziarli”. Due scuole, due mondi diversi: ecco la Grecia. Una vive nei quartieri poveri, l’altra in quelli ricchi. Già a scuola i ragazzi sono diversi. I genitori benestanti regalano un’automobile ai figli che fanno l’esame di maturità. Non possono tollerare che i loro rampolli vadano all’università in autobus.

A una giornalista che raccoglieva materiale per un articolo davanti a un ufficio di collocamento, un ragazzo si è rivolto dicendo: “La prego, non scriva il mio nome. Mia madre non sa che sono disoccupato e che vengo qui a prendere il sussidio”.

Questa settimana ero in attesa a una fermata dell’autobus quando un signore anziano mi ha indicato la solita fila di taxi. “Nessuno li prende più”, ha detto. “E neanche gli ingorghi sono più frequenti come un tempo. È semplice: la gente non prende l’auto perché la benzina costa”.

“Già, sono tempi difficili!”, ho risposto.

“Bah!”, ha ribattuto lui. “Io sono cresciuto negli anni quaranta, al tempo della miseria. Si figuri che andavo a scuola scalzo, perché avevo un solo paio di scarpe e dovevo tenerle da conto”.

È vero. Ma le generazioni cresciute dopo il 1981 non hanno mai conosciuto la povertà. Hanno vissuto in un’epoca di falsa ricchezza, e al solo pensiero di dover fare delle rinunce vengono prese dal panico. Per loro la miseria è qualcosa di sconosciuto. I giovani di oggi sono figli di una generazione che è stata segnata dalla rivolta del Politecnico del novembre 1973, quando uno sciopero degli studenti contro la dittatura dei colonnelli fu represso nel sangue. Quella generazione, però, ha finito per distruggere il paese. Con i suoi slogan di sinistra pensava di costruire una Grecia nuova, ma ha fallito. Le persone oneste si sono ritirate nella sfera privata. Gli altri sono entrati in politica, hanno arraffato un lavoro redditizio come imprenditori all’interno del sistema clientelare, oppure un posto ben pagato nella pubblica amministrazione.

Nei primi anni ottanta chi condivideva questi slogan di sinistra è riuscito a entrare in politica con la tessera del Pasok o ad assicurarsi una poltrona nell’apparato dello stato. Chi non condivideva questo linguaggio faceva parte del vecchio sistema reazionario. Con il passare del tempo, molte di queste persone sono diventate ricchissime. Eppure continuano a dirsi di sinistra. Ma è solo una farsa. Sono questi i vincitori di ieri. Ma i loro figli fanno parte della generazione perduta di oggi. E domani la loro rabbia non risparmierà i padri.

Traduzione di Marina Astrologo.

Internazionale, numero 928, 16 dicembre 2011

Petros Markaris è uno scrittore greco, nato nel 1937 a Istanbul da padre armeno e madre greca. È stato sceneggiatore del regista Theo Angelopulos e ha inventato il personaggio del commissario Kostas Charitos, protagonista di molti romanzi gialli. Il suo ultimo libro è Prestiti scaduti, primo capitolo di una trilogia dedicata alla crisi greca.


Io non ho parole per commentare, ma il tutto mi suona come un deja-vu! Brrrrrr…….


Giuseppe per la crisi di valori e di soldi

#577

 

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  1. Veramente impressionante, dei meccanismi di malgoverno e corruzione molto simili ai nostri, gente che ne ha approfittato di una favorevole situazione economica agendo in modo occulto a favore dei propri interessi, generando così un buco sempre più profondo fino a diventare una voragine e cogliendo ogni categoria alla sprovvista. Una specie di diga del Vajont.
    A volte ripensando ai discorsi dei miei suoceri, guardo la scorta farine e mi chiedo cosa succederebbe se non fosse più così scontata la sua produzione, se fosse limitata, in fondo la storia ci ricorda come il pane ed i cereali fossero un segnale indicatore di povertà. Così ringrazio per ogni momento di abbondanza in cui ancora stiamo vivendo, credo che lo spettro della rinuncia a molte cose stia avanzando, credo che bisogni prepararsi pscilogicamente.
    Non so te Giuseppe, ma io da piccola l’ho vissuta una forma di povertà, l’ho vista, i nostri giovani non ne hanno la più pallida idea.

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  2. La cosa che mi ha colpito di più è la straordinaria analogia con l’Italia. Io spero che come popolo italiano, riusciremo a dare una risposta migliore, io sono fiducioso. Sarà un luogo comune, ma l’italiano riesce a dare il meglio di sè proprio nelle emergenze. Io incrocio le dita e sono ottimista.
    Eh si cara Alessandra, io sono nato un paio d’anni prima di te. L’energia elettrica è arriva che avevo un anno, la radio a 4 anni e la tv a 6. Tutta la mia fanciullezza e adolescenza è stata un barcamenarsi tra difficoltà di vario genere. Quando racconto queste cose ai miei alunni loro mi prendono in giro e mi fanno sentire un Flinstone, ed io per stare al gioco dico sempre che andavo a scuola con Fred e il tirannosauro-rex. :)
    Ciao Ale.

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